Walter Tobagi

Giornalista e scrittore italiano, assassinato in un attentato terroristico perpetrato dalla Brigata XXVIII Marzo.

Vita

Walter Tobagi nacque il 18 marzo del '47 in Umbria.A otto anni la famiglia si trasferi’. a Bresso, vicino a Milano, a causa del lavoro del padre ferroviere. Studio’ quindi a Milano al liceo classico Parini e iniziò la sua carriera giornalistica al ginnasio scrivendo articoli sportivi per la rivista "La zanzara", giornale scolastico “storico” nato negli anni della contestazione studentesca del ’68. Successivamente entrò a far parte del giornale "L'Avanti", il quotidiano storico del Partito Socialista italiano passando da argomenti di politica a quelli riguardanti la scuola e temi di cronaca varia. Vi rimase per poco tempo per poi lavorare per il quotidiano cattolico "Avvenire".
Durante la sua carriera toccò diversi argomenti, tra cui il terrorismo fascista ma anche di sinistra. Tobagi pubblicava non per successo, ma per la ricerca della verità. Questo suo interesse si accentuò iniziando a scrivere per il Corriere della Sera, trattando tematiche riguardanti le Brigate rosse. Questa fu una delle cause che lo portò alla morte giovanissimo alle 11 di mattina il 28 maggio del 1980 con 5 colpi di pistola esplosi da un gruppo esecutivo delle Br, di cui due appartenevano all'ambiente giornalistico, Paolo Morandini e Marco Barbone,figli entrambi della buona borghesia milanese, rispettivamente membro e fondatore della Brigata XXVIII marzo A sparare fu proprio quest'ultimo insieme a Mario Marano. La causa del suo assassinio fu il pensiero politico e la posizione scomoda in cui si trovava negli anni di piombo.

Articolo - "Samurai invincibili"

In questo paragrafo possiamo leggere l'ultimo articolo di W. Tobagi inerente alle Brigate rosse, pubblicato sul Corriere della sera un mese prima della sua morte, forse l'articolo che gli è costato la vita:

"Le brigate rosse nascono nel 68 circa e durano per 18 anni.
Sono state la piu longeva organizzazione terroristica di stampo comunista nei nostri anni di piombo.
Hanno subito diverse trasformazioni in campo di strategia, capi e obiettivi.
Nel 69 per iniziativa di Renato Curcio un gruppo di militanti di sinistra inizia a prendere forma, fondando il Collettivo politico metropolitano, successivamente si unirono Franceschini e Cagol. Se tentiamo di ragionare sui frammenti di verità che la cronaca ci offre in questi giorni, dobbiamo confessare una sensazione: pare proprio che il terrorismo italiano, almeno quello delle Brigate rosse, sia giunto a un tornante decisivo. Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. E ancor più colpiscono gli squarci che ci aprono nel tessuto dell’organizzazione terrorista, dopo gli arresti in fabbrica. Impressiona l’ex operaio della Lancia, Domenico Iovine, che legge un proclama di adesione alle Br nel tribunale di Biella. Impressiona la ragazza di Torino, Serafina Nigro, che si premura di spiegare la specializzazione del suo lavoro nelle Br, «settore informazioni su carabinieri, polizia, magistratura e agenti di custodia». È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito? A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. E però sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche, come è successo alle Presse o alle Carrozzerie della Fiat. Si è scoperto che il terrorista non esita ad acquattarsi sotto lo scudo protettivo delle confederazioni sindacali e perfino del Partito comunista. Anzi, il brigatista Iovine ha strettamente legato la milizia clandestina con le lotte sindacali più dure alla Fiat, i blocchi stradali del luglio scorso, i cortei nell’azienda. Si assiste, insomma, a un tentativo fin troppo chiaro: il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. Ma non c’è dubbio che questa linea delle Br costringe a rifare i conti con una realtà complessa: non serve parlare di fascisti travestiti, quando le biografie personali di capi brigatisti come Lorenzo Betassa o Riccardo Dura rivelano una lunga militanza nel sindacato e in altri gruppi di vecchia o nuova sinistra. L’interrogativo da porsi è un altro: come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva? Questo è il terreno inesplorato, e forse converrebbe mettere un po’ da parte la discussione sulle matrici ideologiche e preoccuparsi delle ragioni individuali, magari psicologiche. Stupisce sapere, come si è detto in questi giorni, che la mitica direzione strategica delle Brigate rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzarani e l’ex cameriere Peci. E fra loro, solo Moretti avrebbe collegamenti col supervertice politico, il sinedrio occulto dei capi di tutti i capi. In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrabile e l’altra l’onnipresente. Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili. Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. Quanti dovevano essere, in febbraio all’Alfa Romeo, per compiere l’agguato contro un dirigente dentro lo stabilimento? Quanti dovevano essere, alla Lancia di Chivasso, per scrivere «onore ai compagni caduti» sui muri della fabbrica dove aveva lavorato Piero Panciaroli, uno dei quattro uccisi nell’appartamento di via Fracchia? E la stessa domanda bisogna porsela per gli striscioni da campagna elettorale che hanno attaccato giovedì sul cavalcavia di Genova e venerdì davanti alla Breda e alla Magneti Marelli di Sesto. Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno. In questo senso, la scoperta dei brigatisti mascherati da delegati sindacali è stato uno choc violento, tale da amplificare il clima di sospetto. L’Adriano Serafino, sindacalista di punta fra i metalmeccanici torinesi, ha raccontato un paradosso attorno al quale si è discusso seriamente: «Se arrestassero il segretario del sindacato, noi che faremmo? Andremmo davanti alle carceri con un corteo di protesta, o sospenderemmo il segretario dall’organizzazione?». L’interrogativo nasce da una considerazione: «Il segretario del sindacato è il più insospettabile. Ma proprio perché è il più insospettabile può essere anche il più sospettato». Paradossi a parte, gli arresti di Torino e Biella impongono al sindacato di riconsiderare dieci anni di storia. La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti. Giova rileggere e meditare quel che ha detto il giurista Federico Mancini, a un recente convegno Uil: «Le lotte 1969-72, proprio perché così estese e antagoniste, mobilitarono militanti in eccesso, col risultato che nel ’73, quando il sindacato cambiò strategia, molti di loro – esperti com’erano di un solo mestiere, la lotta – continuarono a correre». Si determinò un «sovrappiù di militanti», che in parte trovarono sbocco nei nuclei clandestini. E Piero Fassino ha scritto su Rinascita: «Il terrorista può vivere e alimentarsi in fabbrica solo su obiettivi che richiedano, per essere perseguiti, il ricorso a forme di illegalità». La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica. Ma la scelta non ammette grandi alternative, se è vero come è vero (e tutti i dirigenti sindacali lo ripetono) che il terrorismo è l’alleato «oggettivamente» più subdolo del padronato, e se non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio. La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato. Walter Tobagi"


Famiglia

Sposato con Stella e padre di due figli, quando viene assassinato i bambini sono molto piccoli e vivranno il dramma di questa morte precoce.

Da adulti entrambi testimonieranno questa condizione, ma la figlia Benedetta, lo ha fatto in modo piu’ evidente rispetto al fratello Luca.

Benedetta Tobagi, figlia di W. Tobagi, nasce nel 1977 a Milano, quando il padre viene ucciso uscendo di casa , ha tre ani. Si laurea in filosofia e collabora in campo editoriale con il quotidiano La Repubblica, inoltre ha lavorato per diverse trasmissioni radiofoniche come Radio 3 e Radio 2

Ha pubblicato il libro "Come mi batte forte il tuo cuore" in memoria del padre morto nell'attentato del 28 maggio a Milano da parte delle Brigate rosse, per il quale ha vinto diversi premi.

Inoltre è stata promotrice del progetto "Casa della memoria" sul terrorismo a Milano durante gli anni di piombo. Successivamente ha scritto un altro libro, "Una stella incoronata di buio, storia di una strage impunita", che racconta la vita di due giovani coinvolti nell'attentato del 28 maggio, di cui soltanto uno si salva, quest' ultimo inizierà a vivere una "seconda vita" tra aule dei tribunali, in cerca di giustizia. Quest' ultimo libro ha vinto due importanti premi.

Tuttora lavora nel consiglio di amministrazione della RAI.


"Gli assassini di papa’ vennero presi,processati, condannati, ma uscirono  subito di prigione. Avevo sei anni e la mia confusione fu totale. Avrei voluto  fingere che fosse tutto un  brutto sogno, ma la realta’ sbucava fuori da  ogni angolo. Dev’essere stato allora che ha cominciato in me a germogliare  L’idea fissa di capire esattamente cosa fosse successo. Capire per  controllare l’abnorme."

B. TOBAGI, Come mi batte forte il tuo cuore, EINAUDI,TORINO,2009


"Non potevo tollerare di avere solo quell’immagine di mio padre ucciso  quella mattina….  Sono allergica alla retorica vuota del martire e dell’eroe… papa’ ha avuto  paura, ha assunto posizioni impopolari e molto discusse, ha continuato a  scrivere le cose che gli sembravano giuste, ha cercato di riempire ogni  giorno di senso il suo ideale di democrazia: questo, non il martirio, fa di lui  un punto di riferimento"

B. TOBAGI, Come mi batte forte il tuo cuore, EINAUDI,TORINO,2009

Riflessioni d'autore

Remo Bondei ”... essere colti da un sentimento di irrealtà al pensiero di aver davvero vissuto al tempo delle brigate rosse"

L.Manconi, Terroristi italiani. Le brigate rosse e la guerra totale (1970- 2008), Rizzoli, Milano, 2008

"…è questo dato storico rappresentato, appunto, da un terrorismo italiano incomparabile con analoghi fenomeni manifestatisi in sistemi politici affini...il terrorismo è stato : è stato potente ed efferato..."

L.Manconi, Terroristi italiani. Le brigate rosse e la guerra totale (1970- 2008), Rizzoli, Milano, 2008

”…e tuttavia sappiamo che l'insurrezione rivoluzionaria-salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attesti gravemente i diritti fondamentali della persona...-è fonte di nuove ingiustizie"
Paolo VI, Litt. Enc. Populorum progressio,1967

L.Manconi, Terroristi italiani. Le brigate rosse e la guerra totale (1970- 2008), Rizzoli, Milano, 2008

" …e questo con tribuisce a far sì che i familiari restino inevitabilmente inchiodati...a quella crudele dismisura tra perdita subita e pena irrorata(qualunque sia la sua entità): immobilizzati in quel dolore, al quale non è stato dato alcun rilievo pubblico...se non al momento delle esequie. ed è il dopo...a costituire la fase più difficile: quando intervengono la solitudine privata e la smemoratezza pubblica. M. Calabresi con il suo "spingendo la notte più in là”.... l'autore immagina due messaggi....Calabresi si adopera per "liberare" le vittime dal peso immane di chi li ha resi tali. I colpevoli restano sullo sfondo: non trattano più i comportamenti e le scelte dei familiari delle vittime...operano positivamente per tutelare la memoria dei propri cari, più e prima di operare negativamente contro coloro che ne hanno determinato la morte…” … il secondo messaggio ..."farsi carico" della intera vicenda nella quale si colloca l'omicidio del padre....la riconciliazione...deve realizzarsi...con la storia nazionale e le sue tragedie....riconciliazione è la capacità di assumere il contesto ... in cui avvengono quelle tragedie"

L.Manconi, Terroristi italiani. Le brigate rosse e la guerra totale (1970- 2008), Rizzoli, Milano, 2008